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Alborán: 110 racconti in 110 parole. Glauco Ballantini racconta il suo libro

Mercoledì 14 Novembre 2018 — 18:29

L'autore spiega il motivo di questa originale scelta: "Il numero di parole precise serve per dare una cornice al racconto, sono quadri che hanno le stesse dimensioni e possono stare accanto uno all'altro. Nel mio lavoro c'è anche molta Livorno"

di Paolo Rognini

Alborán è il nuovo libro del livornese Glauco Ballantini. Un volume, edito dalla casa editrice modenese “Asterione”, che incuriosice sin dall’inizio proprio per la modalità con la quale è stato concepito e scritto: centodieci racconti in centodieci parole. Quilivorno.it ha intervistato l’autore.

Ballantini, cominciamo con il chiederle, da dove è nata l’idea di scrivere questa raccolta di racconti?
“Più che del libro direi dei racconti. Il fascino del molto breve mi ha attratto tre anni fa, ma parte da più lontano. Dai racconti in tre righe di Feneon, dai ritratti dell’antologia di Spoon River, dalle liriche di Olindo Guerrini. Il racconto parte solitamente da un riferimento ad episodi e situazioni reali, che sono servite alla struttura del racconto, poi mescolata e colorata con i testi delle canzoni dei grandi cantautori italiani, ma anche da influenze le più diverse”.
Ma l’impostazione letteraria viene dal passato, quando andava alle scuole medie…
“In un certo senso c’è un racconto del 2014 che pensandoci è stato l’antesignano dei 110 ed era un racconto intitolato Appello! nel quale descrivevo brevemente i compagni delle scuole medie con i quali per tre anni ho condiviso l’avventura scolastica delle Mazzini in via Tozzetti, poche righe per ognuno per mettere a fuoco il ricordo”.
Dare importanza agli aspetti quantitativi di un’opera letteraria non ne compromette la qualità?
“Il numero di parole precise serve per dare una cornice al racconto, sono quadri che hanno le stesse dimensioni e possono stare accanto uno all’altro. Ho cominciato scrivendo racconti brevi senza tenere conto della lunghezza, poi sono passato, nel 2015 a scrivere i 110”.
Perché proprio centodieci?
“Perché penso che sia un numero congruo di parole per dare vita ad un racconto, una sorta di formula che destina cento parole alla descrizione ed allo sviluppo del narrato e si lascia lo spazio per una frase ad effetto che consente una colorazione più vivida del racconto stesso”.
Ci sono racconti legati a Livorno?
“Livorno fa da cornice a molti dei racconti ed alcuni luoghi sono essenziali per gli stessi, per esempio la Bellana, la funicolare di Montenero, viale della Principessa, la stazione di Antignano, le scuole che ho frequentato…”.
Quanto ha pesato il fatto di essere un autore livornese e quanto quello di provenire da una famiglia di artisti?
“Livorno c’entra sempre perché è l’ambiente dove si svolgono le vicende e dove vivono le persone che danno spunto alla costruzione del racconto, quanto alla provenienza di famiglia ho preso la parte letteraria per una divisione del lavoro con chi mi ha preceduto. Così non si rischia di ripetere strade già percorse”.
In ultima istanza perché un lettore dovrebbe comprare il suo libro di racconti?
“Perché si può leggere a varie velocità, si può leggere un racconto alla volta o tutti d’un fiato. Se ne traggono impressioni diverse perché leggendoli insieme si ha la costruzione complessiva di un villaggio di cento abitanti. E poi è abbastanza originale, via…”.

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