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Teatro. “Bruno”, il corpo come massima espressione di dolore e irrazionalità

Lunedì 22 Ottobre 2018 — 16:26

Ecco la recensione sullo spettacolo che dà il via alla stagione del Centro Artistico "Il Grattacielo". Una vicenda che non si veste di retorica o immagini abusate dalla società moderna, che guarda in faccia il suo pubblico, in modo freddo e distaccato in uno spettacolo dove il calore umano è distante

di Claudio Fedele

Uno spettacolo privo di compromessi che guarda in faccia lo spettatore in modo diretto e senza tanti fronzoli, un’intesa, tra autori e fruitore, che è scevra di quella gran parte di mezzi e trucchi attraverso cui si arruffiana chi sta in platea e si prende il prima possibile dimestichezza con l’opera: Bruno non chiede d’essere compreso appieno, o meglio, non pretende di chiarire ogni suo minimo aspetto, non offre un piatto ben condito di razionalità e logica in quanto figlio dei sogni, dei desideri e dell’ambizioni infrante del suo protagonista, legato ad un mondo onirico e imbottigliato in una danza che vaga tra l’immaginario psicologico ed il fantastico, le basi, queste, su cui ha inizio un volo pindarico sempre più estremo, che pur partendo dai dolori umani e della prima infanzia, dalle memorie che si susseguono l’un l’altre, abbracciano l’esistenza di un’anima fragile in un’epoca brutale, ma soprattutto embrione ed identità straziata dai mali di un mondo che Bruno non cerca di comprendere, applicando ad esso paradigmi e interpretazioni esistenziali che trascendono dal bisogno di essere condivisi o abbracciate, nel suo personale punto di vista, da altri uomini e donne.

Una stanza dalle pareti bigiognole, con un letto in primo piano ed un tendaggio sporco sullo sfondo, dei fasci di calda luce dall’alto che danno la sensazione di rendere ancor più statico un palco su cui si muovono i corpi di Federico Dimitri e Elisa Canessa in quella che si potrebbe azzardare a definire una danza disarmonica, fatta di gesti disparati che si realizzano in movenze cariche di scatti, quasi convulsioni, il potenziale inespresso, nell’esistenza, nella gioia, nel dolore, nel futuro, un binomio di vite spezzate che cerca di offrire quanto può con l’unico ausilio del corpo e del silenzio, dei versi animali e delle urla che voglio far tornare l’umano alla condizione di bambino, quei bambini che, proprio nell’infanzia, inconsapevolmente, sanno di essere al sicuro, circondati dai recinti di quella irresponsabilità e quotidianità che non permette loro di osservare il mondo in orizzontale, godere della prospettiva adulta e per questo approfittare, con sincero spirito, ogni attimo della loro beata esistenza; Bruno però fa i conti con i drammi personali, i lutti ed i dolori ontologici che hanno contraddistinto il secolo scorso, fa a pugni con l’orrore della guerra e della solitudine, alla continua ricerca di spazi e libertà, speranze grandi o piccole, soddisfazioni personali e avventure che son costrette ad abbattersi sui duri scogli di quell’aspro promontorio chiamato “Storia” e di cui lui, umile anima, fa parte ed allo stesso tempo non ha voce in capitolo per lasciarvi anche un benché minimo segno, ironia amara, invece, quella che concerne la storia della sua vita che lo vedrà vittima degli eventi.

Il Centro Artistico “Il Grattacielo” dà inizio alla stagione 2018/2019 con una pièce che mette alla berlina un’ambizione di tutto rispetto, mostrando che il teatro è interazione difficile e non sempre alla portata del pubblico meno sensibile o acculturato, perché Bruno ha ed è un inizio complesso, nella sua impostazione e nella gestione della narrazione, frammentaria, intricata e onirica, astratta, pur sempre contraddistinta dalla predilezione e dalla necessità di fare della fisicità il suo punto di forza, chiave di volta con cui la bravura dei due attori protagonisti riesce ben ad amalgamarsi a quel che c’è da dire ed esprimere. Bruno, infatti, è una prosa tronca e priva di parole che punta ogni cosa sull’espressione dei fatti e degli umani sentimenti senza esplicarli in modo troppo esplicito.

Una vicenda che non si veste di retorica o immagini abusate dalla società moderna, che guarda in faccia il suo pubblico, in modo freddo e distaccato in uno spettacolo dove il calore umano è distante, perché in questo scenario desolante non possiamo più di tanto immedesimarci nei suoi personaggi, ma studiarli ed analizzarli come esterni, estrinsechi ai suoi contenuti, ma privilegiati nell’assistere alla loro messa in scena. Bruno mostra il fianco solo nel voler abusare di questo distacco, allontanandosi da un teatro umano e sofisticato, facendosi carico della complicità di uno strumento fuori luogo come il microfono, unico elemento di disturbo e troppo poco in linea con il disegno drammatico fatto dagli autori, amplificazione sterile di quello strazio ben rappresentato dal corpo umano di un uomo e di una donna nella loro crudezza e disperazione, nei loro muscoli e nei loro movimenti. Una nota stonata, pur tuttavia, che non intralcia la godibilità della messa in scena, che non fa sentir meno le iniquità della vita.

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