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Al Vertigo va in scena Brecht: il Reich visto da un’inedita prospettiva. La recensione

Domenica 19 Gennaio 2020 — 12:52

Dalla prospettiva che lo spettacolo vuole dare emergono i disagi di un popolo e le oppressioni di uno stato

di Claudio Fedele

Con “Terrore e miseria del terzo Reich” il teatro Vertigo coglie l’occasione di parlare al pubblico di quello che è stato il nazismo e la politica del Reich nella Germania di metà novecento, alla vigilia di quella che sarebbe stata la seconda guerra mondiale. Una decisione non casuale, data l’estrema vicinanza alla Giornata della Memoria del 27 gennaio, di forte impatto e manifesto dell’intenzione di voler proporre un intrattenimento tutt’altro che facilmente fruibile.

L’importanza di riprendere precise tematiche e scene, niente affatto scontate, che portano il pubblico a rivedere, rivivere e interagire, con relativo distacco, con il passato, ha oggi un quid fondamentale che vuole oltrepassare i limiti del palcoscenico portando lo spettatore in uno status di riflessione preciso affinché l’assimilazione dell’opera possa andare a braccetto con la denuncia che in essa è pronta a emergere: il teatro, in questo frangente, non si fa solo veicolo fisico, ma assume contorni ammonitori attraverso cui si può scavare affondo per far riemergere quelle coscienze sopite ed assuefatte ad una società sempre meno consapevole e cosciente di cosa ha significato la guerra, il dolore, la separazione e il genocidio di un popolo, o per estensione, l’autodistruzione umana stessa nata da ideologie mostruose e dalla paura dell’altro, del diverso.

Costituito originariamente da ventiquattro scene, l’opera di Bertolt Brecth è stata riadattata attraverso una rigida selezione: ad essere messi in scena sono unicamente tre episodi del dramma originale, un trittico socio-politico scelto appositamente dalla regista, Rebecca Luparini, capace di conservare tutta la potenza drammatica insita nella visione teatrale di Brecth.

Sono “La Croce col Gesso”, “Lo Spione” e “La Moglie Ebrea” le scenette su cui è stato fatto un lavoro di adattamento e rappresentazione.

Ognuna di esse è diversa per toni e personaggi, ma accomunate da un forte senso di angoscia, pressione, terrore e amara ironia.

“La Croce col Gesso” si rivela la più complessa da gestire, anche per gli occhi del pubblico, poiché abbiamo un campionario di personaggi che interagiscono tra loro e sono allo stesso tempo risucchiati dalla presenza di una SA, centro nevralgico del contesto scelto nonché elemento di disagio da cui gli altri prendono costantemente le distanze e cercano di moderare i toni.

Qui funziona l’atmosfera claustrofobica ed il clima di terrore, non tanto manifesto e palese bensì addentro agli sguardi dei protagonisti e nelle brevi dichiarazioni di quest’ultimi colme di ambiguità: laddove, non a caso, abbiamo un personaggio come la SA pronta ad elogiare l’operato del Reich, a farsi simbolo dell’orgoglio dei propri principi, a fare di un “sospetto una certezza”; dall’altro ci sono i silenzi dell’autista, il quale se ne sta in un canto a leggere il giornale, cercando di tenersi lontano dalla politica e dalla società, ma anch’egli incapace di non essere risucchiato dal terrore che ferocemente stringe il popolo tedesco, un popolo unito da un patriottismo che cammina assieme al dubbio su chi sia in tutto e per tutto, davvero, devoto al Fuhrer.

La sequenza alza, minuto per minuto, costantemente il livello di diffidenza generale, il pubblico è portato a dubitare di ogni gesto, ogni frase, sberleffo o battuta; la tensione sale, nel finale, a tal punto che persino un abbraccio può significare qualcos’altro, dietro al quale si può celare uno gesto brusco o un’intenzione malvagia: affidare se stessi ad un’altra persona equivale, perciò, a perdere la propria individualità, il proprio io.

E’ l’annientamento dell’Essere, non solo materialmente, dato che denunciare qualcuno equivale a condannarlo, ma anche ideologicamente: l’unico pensiero è rivolto al Reich e solo il Reich è sinonimo di verità assoluta, tutto il resto è inganno.

L’epifania su cui si chiude la vicenda è amara ed allo stesso tempo crudelmente realistica: la cuoca ormai capisce, infine, che la persona che ama, la SA in scena, non è più l’uomo che ha conosciuto, ma un automa plasmato fino al midollo su quella montagna di oscenità dietro a cui si cela la forza bruta di un fine “più alto” da preservare e seguire con idolatria.

Un epilogo, nella sua individualità, spiazzante.

“Lo Spione” è una farsa vera e propria, gioca con il pubblico per tutta la sua durata, ma anche in questo caso, agli spettatori, sono riservati alcuni momenti di drammatica genialità. Potrebbe, in determinati frangenti, ricordare un horror sociale e familiare, dove maggiormente traspare la tematica dell’insinuazione nelle menti e nelle case dei tedeschi di quello che fu il nazismo. La famiglia borghese rappresentata entra in scena durante una tranquilla domenica di pioggia, ma l’arroganza e l’impazienza del padre sono l’incipit ideale su cui ruota l’intero dramma. Se la tematica, a grandi linee, rimane la stessa (non è più possibile fidarsi di nessuno, persino sotto il proprio tetto) e si continua a respirare un’aria colma di tensione, abbiamo modo di studiare l’angoscia di due genitori capaci di mettere in dubbio l’integrità morale del figlio, il profondo terrore che questi possa riportare discorsi apparentemente sconvenienti a terzi che, a loro volta, potrebbero causare seri problemi al nucleo familiare con tanto di possibile arresto e deportazione.

Conclude il trittico “La moglie Ebrea”, il monologo meno immediato, più ragionato, apparentemente meno fruibile ed allo stesso tempo più amaro.

E’ la storia di una donna costretta a lasciare la propria città, trasferirsi altrove per scappare alle leggi del Reich, decisa ad abbandonare colui che ama, ma fiera allo stesso tempo delle proprie origini, di ciò che è e delle proprie decisioni.

La difficoltà sta nell’approccio alla scena, la quale inizia in media res e da cui dobbiamo immediatamente prendere atto della climax rappresentata dai diversi toni di telefonate che la protagonista fa ai suoi conoscenti: da una prima dai toni calmi e moderati, fino ad un’ultima che sa tanto di dichiarazione di intenti, per poi sfociare in un monologo sulle condizioni in cui vive che vuole rivolgersi, anche, al pubblico presente graffiando la quarta parete e facendo venir meno la finzione teatrale.

Il testo più difficile e più intimo, il lamento di una donna dinnanzi al suo letto, rappresentato in questa occasione, da un lato, con un’eccessiva rigidità da parte degli attori in alcuni passaggi, per quanto, del resto, a loro vada comunque il grande merito di averlo reso attuale e averlo svecchiato nel modo corretto, non rendendolo mai fittizio o poco credibile, cercando di plasmare i propri volti nel modo più appropriato possibile ad una tragedia di singolare bellezza e crudeltà.

“Terrore e miseria del terzo reich” è uno spettacolo affascinante ed inquietante al tempo stesso, vuole mandare un messaggio preciso alle generazioni odierne e questa produzione ha voluto andare ben oltre la semplice rappresentazione: la cura riposta nella messa in scena si rispecchia persino nelle scenografie, lo sfondo nero su cui campeggiano in verticale tre drappi rossi, i cui colori richiamano l’iconografia cromatica del Reich, gode non solo di un’assonanza numerica con le scene rappresentate, ma si fa metafora di una minaccia, il nazismo, che dietro ai quadretti di vita quotidiana osserva incessante coloro su cui cela la sua ombra; proprio per questo si potrebbe persino azzardare a dire che la sola rappresentazione estetica dello spettacolo sarebbe stata capace di mandare un messaggio importante ed incisivo.

Coerente e innovativa la citazione finale di Primo Levi, analogia grazie al quale si viene a creare un mix tra due autori di generi diversi che vanno oltre i limiti del tempo in cui sono vissuti.

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