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Mezzo secolo di Livorno e della sua diocesi nel libro “Piazza Grande” di monsignor Razzauti e Zucchelli

Martedì 8 Ottobre 2024 — 16:24

Il volume, edito da Pharus, la casa editrice della diocesi, viene presentato mercoledì 9 ottobre alle ore 17,30 nella Palazzina Pancaldi, all’interno dello stabilimento balneare

Il racconto di oltre mezzo secolo di storia della città di Livorno (e della sua diocesi) nel libro che monsignor Paolo Razzauti ha scritto insieme a Mauro Zucchelli, per lunghi anni cronista del “Tirreno”. Si intitola “Piazza Grande” (con l’introduzione del vescovo Simone Giusti e del presidente della Fondazione Livorno, Luciano Barsotti). Il volume, edito da Pharus, la casa editrice della diocesi, viene presentato mercoledì 9 ottobre alle ore 17,30 nella Palazzina Pancaldi, all’interno dello stabilimento balneare.

Insieme agli autori, ne discuteranno Vannino Chiti, ex presidente della Regione, poi ministro e vicepresidente del Senato; Cristina Grieco, neo-provveditora del sistema scolastico livornese, dopo esser stata assessora regionale e presidente di Indire; Luca Collodi, viceresponsabile del canale italiano di Radio Vaticana. La regia dell’incontro è affidata a Roberto Bernabò, al timone del “Tirreno” come direttore, poi ai vertici del “Sole 24 Ore” e ora di “Class Editori”.

Ecco un brano dal libro di don Paolo.

Non posso dire che prima non avessi messo il naso fuori dai confini della mia parrocchia ma quando sono stato nominato vicario generale ho sentito la mia vita scombussolarsi.  Sia chiaro, come in ogni passaggio di queste pagine lo dico guardando alla parzialità del mio punto di vista, e non alla “carriera” ecclesiastica: ciascuno – dirà papa Benedetto XVI con una celebre similitudine – è «operaio nella vigna del Signore», e dunque ha senso solo l’idea di mettersi a servizio di un disegno più grande del mio piccolo “io”. Ma dal punto di vista dell’approccio umano, ecco che questo passaggio di ruolo mi fa cambiare l’angolo della visuale: l’orizzonte non è più principalmente quello parrocchiale, sono chiamato a guardare la Chiesa (e la società) da una prospettiva differente. Anche solo per l’aspetto dimensionale: è un orizzonte ben più ampio, esteso a tutta la diocesi.

Ma ci sono anche altri elementi che cambiano. Ad esempio, il rapporto con il clero. Conoscevo già i preti e il nostro territorio, però adesso non è più un aspetto volontario o comunque caratteriale, mi si chiede di essere vicino a ciascun prete e a inserirmi più direttamente nel territorio della diocesi. E se insisto sulla parola “diocesi” è perché i confini comprendono anche Rosignano.

La relazione con il clero si intensifica proprio perché sento la responsabilità di una fraternità e, lo dico un po’ fra virgolette, di una “paternità” che mi renda vicino a ogni prete e ogni diacono così da avvertire l’urgenza di esser anello di congiunzione fra gli uni e gli altri ma anche tutti insieme con il vescovo. Anni intensi e belli: tanti incontri, colloqui, visite. Racchiuse poi nel colloquio di revisione settimanale con il vescovo. Da aggiungere poi che ogni mattina si tiene un faccia a faccia con il vescovo per verificare il cammino e quel che c’è da fare passo dopo passo. L’ho detto, il vicario generale lo vedo come un tramite: tra il vescovo e i preti così come viceversa. Senza che abbia a offuscarsi l’identità dell’uno o degli altri. Il punto più alto di questo mio servizio l’ho trovato appunto in questa doppia bussola: accoglienza e accompagnamento.

Sotto questo profilo uno dei momenti più dolorosi è stati il periodo in cui alcuni sacerdoti, a breve distanza di tempo l’uno dall’altro, hanno deciso di lasciare il sacerdozio per seguire scelte personali: difficile perché in certe situazioni non si devono condannare le persone, anzi nel rispetto delle loro scelte è indispensabile aiutarle a uscirne con dignità. Ho cercato di farlo, e in due casi fra questi io vicario sono andato a sostituirli per un certo periodo di tempo per dare una mano anche alla comunità a superare quella fase […].

C’è una cosa che si avverte nell’aria e che segna una differenza fra i periodi più recenti e un passato un po’ più lontano nel tempo: è il bisogno di scandire l’impegno attraverso eventi. Come se fosse l’evento a dare la “temperatura” dell’impegno. In realtà, in passato era più la quotidianità – la capacità di reggere l’impegno nelle “ferialità” delle circostanze, nel ritmo di tutti i giorni – a rappresentare il modo d’essere. Come me lo spiego? Non saprei, non credo forse neppure sia possibile trarne una “legge” generale: semmai mi pare che il nostro mondo attuale (e il nostro modo di essere lì dentro quella “scenografia” umana) risenta di una certa assuefazione a una enorme gamma di stimoli di tutto un po’ e dunque pensi di aver bisogno di “spettacolarizzare” qualsiasi cosa in un evento. Per farlo diventare mirabile, per farlo spiccare sul tran tran e su un continuo “rumore di fondo”.

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