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“Artisti di Livorno”. Bernard “corre” sulle parole

Martedì 7 Marzo 2017 — 08:47

Sei uno scrittore, un cantante, un pittore, un fotografo, un artista? Hai voglia di "farti raccontare" da Quilivorno.it? Scrivi a [email protected] raccontando la tua esperienza e lasciando un tuo recapito. La redazione ti ricontatterà

di Anna Campani

Giorgio Bernard non si definisce artista, come ci ha spiegato durante il nostro incontro. Una parola che a suo avviso non descrive né sé stesso né gli scrittori. Innamorato però, di quella che è un’arte a tutti gli effetti: la scrittura. Un amore, il suo, che lo porta ad alzarsi la mattina, a vestirsi di tutto punto e a uscire insieme a lei. Non stiamo parlando di una donna, ma di quel vento che lo sospinge ogni giorno della sua vita. Quel motivo che insieme alla sua famiglia gli consente di respirare, perché altrimenti, senza quella parole battute “a macchina”, come a lui piace descrivere il suo computer, si sentirebbe come in procinto di affogare. Il suo ultimo lavoro lo ha portato a correre più del solito, lui che da quella corsa, da quel mare che spesso lo accompagna durante lo sport ha sempre tratto ispirazione. Idee, immagini, un taccuino mentale che si riempie a suon di falcate. Benedetta e Niccolò è un libro che racconta una storia vera, la storia di una madre e di suo figlio, la scoperta di una malattia che spesso non viene accettata dal genitore stesso, l’autismo. La storia di una madre e di un figlio, descritta nelle cinque fasi dell’accettazione del lutto (Negazione, rabbia, patteggiamento, accettazione). Descritta tramite gli occhi di entrambi, cambiata per certi versi, romanzata, ma pur sempre reale, terribilmente reale. Una storia che l’ha portato a documentarsi, a informarsi su una malattia che non conosceva e che l’ha cambiato radicalmente, perché certe storie, quando le scrivi e le vivi, finiscono per diventare anche un po’ tue.

Scrivere, il percorso che ti ha portato a capire che era quella la tua strada. Quando hai capito che non potevi stare senza questa arte?
“Arte è una parola che mi ha sempre messo a disagio. Credo che un poeta, o un pittore possano essere definiti artisti, ma un romanziere no. Il mio lavoro è raccontare storie e più che un artista, mi sono sempre sentito un artigiano: una persona che non vive della propria ispirazione, ma delle sue competenze spicciole, di minuzia e attenzione al dettaglio; che cerca di realizzare qualcosa di compiuto, attraverso un piano di lavoro quotidiano, ben aggrappato alla sua preziosa cassetta degli attrezzi. Che io ricordi, sono sempre stato un “raccontastorie… fin da quando ero bambino. Per parafrasare Walter Benjamin, ogni gruppo di persone ha bisogno del suo narratore e, all’interno di qualsiasi contesto io mi sia ritrovato a fare parte, il narratore sono sempre stato io: quello che inventava, recitava barzellette, che riportava alla memoria le avventure condivise. Per voler essere onesto fino in fondo, non ho mai preso in considerazione l’idea di poter entrare a far parte di un gruppo, se scoprivo che il ruolo del narratore era già occupato da qualcun altro”.

Il tuo primo libro, la tua prima avventura….
“La prima avventura non è stata un libro, ma un fumetto. All’epoca lavoravo a quattro mani con un disegnatore, che dava vita con le sue chine alle mie sceneggiature. La nostra opera era intitolata provvisoriamente “Quintet” e ce la portammo appresso per qualche mese, chiusa dentro una cartella di plastica, alla ricerca di un editore, prima di riporla e poi dimenticarla in attesa di tempi migliori. È ancora impilata in mezzo ai volumi di appunti e brogliacci che sovrastano la mia postazione di lavoro e ogni volta che la sfoglio continuo a trovarla bellissima”.

Quanto Giorgio c’è in quello che scrivi, quanta ispirazione prendi dalla tua vita?§“In ogni cosa che scrivo c’è tantissimo di me, anche quando si tratta di soggetti “non originali”. Penso che sia inevitabile riversare dentro a quel che si scrive una larga parte del proprio vissuto…un po’ quello che capitava al protagonista di “Harry a pezzi”, un film di Woody Allen che doveva avere più di qualche punto autobiografico”.

Quando ti siedi a scrivere ti vesti di tutto punto, come se fosse un appuntamento con una donna…Raccontami.
“Credo che nessuna donna, fatta eccezione per mia moglie all’altare, abbia avuto l’occasione di vedermi vestito di tutto punto (e anche in quella circostanza ero comunque pettinato malissimo). Non arriverei a definirmi sciatto, ma trasandato, quello sì, lo ammetto e anche con una punta di orgoglio. Per rispondere alla tua domanda, comunque, in media sono vestito sempre meglio quando sono seduto davanti al computer per scrivere, che quando esco di casa a far compere o per incontrare qualcuno”.

Qual è il libro che hai scritto che ti ha fatto sentire più orgoglioso e quello che invece, a tuo avviso, avresti potuto scrivere meglio?
“Il libro che senza dubbio mi ha fatto sentire più orgoglioso è stato “Sangue di Re” e per un semplice motivo: è un libro cervellotico, complicatissimo, lontano anni luce dal mio stile narrativo; lo avevo scritto unicamente per me, come tentativo di fuga da una dolorosa situazione personale. Eppure, contro ogni plausibile aspettativa, è stato pubblicato, ha avuto buon successo di vendite a ha ispirato addirittura un gioco di carte che verrà lanciato a breve negli Stati Uniti. Chi l’avrebbe mai detto? Quanto a delusioni beh, siamo onesti: probabilmente tutti gli altri libri, forse perfino lo stesso “Sangue di Re”. Se, appena finito di scrivere un romanzo, provi a leggere il libro che lo aveva preceduto, ti basterà scorrere una decina di pagine per rimanere profondamente deluso. Ed è normale, credo: si impara a scrivere scrivendo e non c’è testo, tra quelli che ho scritto, che adesso non potrei scrivere meglio. Tutto sta nel sapersi accontentare (ma solo fino a un certo punto) e nel non rileggere troppe volte quello che si è scritto. Credo che un centinaio di volte possa bastare”.

Cosa ne pensi dell’editoria in Italia e delle possibilità che vengono date agli scrittori?
“Il panorama non è esaltante, così come quello generale, è ovvio. L’impressione che in Italia, nel corso degli ultimi anni, si sia persa la prospettiva dell’investimento a lungo termine (e solo per questo più proficuo) a vantaggio del guadagno minimo ma immediato. Per cui, quale ragione c’è di andare alla ricerca del nuovo Italo Calvino (e sono sicuro che esiste davvero), quando puoi spillare a un giovane autore delle cifre astronomiche per valutazioni o peggio, pubblicazioni a pagamento, che ti consento comunque di pagare le bollette a fine mese? Fa rabbia, perché i talenti ci sono e basta proporsi come lettore e valutare i concorsi letterari (gratuiti, mi raccomando) per potersene rendere conto. Ci credi se ti dico che tre dei libri più belli che ho letto quest’anno erano inediti e, ahimè, non verranno pubblicati mai? Questo paese soffre di un’endemica carenza di meritocrazia. Potessimo acquistare quel principio come si fa con i vaccini, debelleremmo la mafia più in fretta di un raffreddore”.

A cosa stai lavorando al momento?
“Negli ultimi mesi sto lavorando a diversi progetti: un thriller apocalittico ambientato a Roma e che sono costretto a mettere in stand by fino a fine estate, un romanzo di taglio giornalistico su un gruppo di persone che si approcciano alla corsa naturale (a piedi nudi nei boschi, tanto per intenderci) e infine la conclusione della trilogia Young Adult de “I racconti degli Esterni”, di cui “Sangue di Re” rappresenta il primo capitolo”.

Quanto è difficile stare accanto a uno scrittore?
“Vivermi accanto credo sia difficilissimo. E ritengo che la stessa cosa valga anche per gli altri scrittori. Mettere nero su bianco una storia è un’operazione che non è mai indolore, rilascia tossine, immancabilmente. Si viene risucchiati dalla trama; dai personaggi soprattutto. E ci si ritrova sospesi in un limbo, in cui le persone reali che ti stanno accanto sembrano perdere di consistenza. Ogni familiare di scrittore meriterebbero un monumento, che lo ricompensi, almeno in parte, di quello che gli è toccato patire”.

La corsa, correre… quando corri i tuoi personaggi parlano più forte.
“Corsa e scrittura si somigliano davvero tanto. E non parlo della mezzoretta che fai la sera, tanto per tenerti in forma; penso all’allenamento, alla preparazione di una maratona. Puoi anche decidere di fare due ripetute in meno, non ti guarda mica nessuno: però andrà a finire che correrai una maratona pietosa. E lo stesso vale per un romanzo: accontentati pure di una metafora traballante, di una seconda rilettura o di una scrittura saltuaria e il libro ti verrà fuori lo stesso. Però ti verrà fuori un libro brutto”.

Livorno…. La tua città, il tuo mare. Il tuo rapporto con le nostre strade.
“Il Poeta Iosif Brodskij sosteneva che San Pietroburgo fosse il luogo sulla terra dove i pensieri si staccano più facilmente da terra per volare verso l’infinito. Roberto Scarpa, di contro, ha recentemente affermato che Livorno sia il posto in cui tale procedimento risulta più complesso. Innanzitutto proverbiale materialità. L’altro elemento è la nostra consolidata indolenza, la nostra cronica incapacità di scrollarci di dosso il consolidato, forse per paura di perdere le nostre microscopiche rendite di posizione. Non lo so, resta il fatto incontestabile che un Livornese, per poter sperare di riuscire a combinare qualcosa, la sua città è sempre costretto ad abbandonarla. Salvo poi venire fischiato una volta che, riuscito ad avere successo, riesce a fare ritorno. E tutta via la amo, dello stesso ardente amore che un piromane potrebbe amare la benzina”.

Le opere di Giorgio Bernard:

Giovanni Gelati “Diario di un podestà antifascista” (Belforte 2009)

“I Racconti degli EsterniSangue di Re” (Vertigo 2014)

“Benedetta e Niccolò”, una storia di amore e autismo (La vita felice 2017):

“Una giovane madre e il suo bambino, le aspettative e i progetti di vita, fino a che la serenità della famiglia non viene cancellata da una diagnosi terribile: autismo. Lo smarrimento che diventa paura, la ricerca di spiegazioni e speranze in un mondo sconfinato, quello medico e accademico, che sembra incapace di offrire risposte univoche. La frustrazione si trasforma poco a poco in desiderio di isolamento e finisce col generare una rabbia irrazionale e prepotente. Eppure una via d’uscita esiste ed è a portata di mano: la possibilità di intervenire, la dedizione amorevole di un’equipe di medici e operatori, che si stringono attorno al bambino e i suoi familiari per aiutarli a ritornare alla vita, tutti insieme. Uno struggente racconto a due voi, quella della mamma e quella del piccolo, la storia vera di un percorso terapeutico e umano che li porterà a cercarsi, a corrersi incontro e, infine, a ritrovarsi, oltre l’autismo, e scoprirsi cresciuti, com’è normale che sia. Pe4rchè non c’è dolore o malattia che l’amore non sia in grado di sconfiggere: amore per i propri figli, per il proprio lavoro, amore per la vita. Amore a tutto tondo”.

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