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Traffico rifiuti metallici: container sospetti anche nel porto di Livorno

Mercoledì 11 Ottobre 2017 — 15:16

Due anni di intensa attività investigativa, coordinata dalla DDA di Roma, hanno portato la Guardia costiera a sgominare un cartello di imprese dedite al traffico internazionale di rifiuti metallici contaminati che spediti via mare su container da vari porti italiani (Civitavecchia, Livorno, La Spezia, Genova e Ravenna), raggiungevano le destinazioni di Cina, Indonesia, Pakistan e Corea (clicca sul link in fondo all’articolo per vedere il VIDEO).
Le operazioni, dirette personalmente dall’Ammiraglio Giuseppe Tarzia (nella foto), all’epoca dei fatti Comandante del porto di Civitavecchia, ed oggi di Livorno, sono in corso dall’alba di oggi con l’esecuzione di numerosi arresti e sequestri di aziende in varie regioni d’Italia, Lazio Toscana e Umbria.
Il gip dell tribunale di Roma, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia, ha infatti emesso 7 ordinanze di custodia cautelare personale e disposto il sequestro preventivo di diversi stabilimenti situati in Orvieto e nel viterbese, oltre a svariati milioni di euro da sequestrarsi per destinare a confisca, quale recupero sui proventi illeciti.
L’indagine, partita da alcuni container sospetti ispezionati dalla Capitaneria di porto di Civitavecchia, coadiuvata dalla Agenzia delle Dogane, ha da subito mostrato profili di rilievo nazionale, relativamente alla provenienza dei rifiuti, ed internazionale per quanto attiene alle destinazioni.

Il Comandante della Capitaneria di Porto Giuseppe Tarzia

I soggetti arrestati e le loro aziende, mediante vari giri di false attestazioni e certificati, acquistavano rifiuti industriali complessi e contaminati, su tutti da PCB (policlorobifenili – di tossicità equiparata alla diossina), e, dopo aver simulato lo svolgimento di procedure di bonifica in Italia, lo rivendevano tal quale come materiale recuperato e “pronto forno” per un nuovo ciclo produttivo. In realtà i rifiuti, in Italia, subivano solamente una mera macinatura e, fortemente inquinati, venivano spediti via mare nelle destinazioni internazionali, senza nessuno scrupolo per la salute degli operatori in contatto con gli inquinanti.
Per questo, all’operazione è stato dato il nome “End of Waste”, termini che indicano normalmente il rifiuto che cessa di essere tale al termine di un idoneo ciclo di trattamento e bonifica; ritorna ad essere materia “prima” da impiegarsi in un nuovo ciclo produttivo. Gli indagati, mediante un articolato sistema di falsi documenti prodotti da falsi aziende, esportavano rifiuti dichiarandoli “End of Waste”, appunto.
La trattazione e la bonifica dei rifiuti è disciplinata da un articolato quadro normativo nazionale, europeo ed internazionale che discendono dalla Convenzione di Basilea. Ogni operatore, in ogni fase della filiera, deve poter dimostrare la provenienza e la destinazione dei prodotti, nonché i trattamenti a cui sono stati sottoposti o a cui saranno sottoposti.
Quarantasei milioni di euro l’anno è la media del giro d’affari derivante dal traffico illecito che emerge dalle indagini, cui si deve sommare l’effetto negativo indiretto su tutti gli operatori rispettosi delle regole del settore, in particolare le aziende sane che offrono sul mercato i servizi di bonifica, limitando per esse i margini di guadagno; senza contare i maggiori costi per le imprese che conferiscono lecitamente i rifiuti

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