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“456”, cinico dramma di un’Italia di provincia

Venerdì 20 Aprile 2018 — 11:05

L'ultimo spettacolo di prosa al Goldoni, con il quartetto d’attori di prim’ordine (Massimo De Lorenzo, Cristina Pellegrino, Carlo De Ruggieri e Giordano Agrusta) ha concluso in modo convincente un percorso artistico che il regio teatro ha deciso di fornire al suo pubblico

di Claudio Fedele

Una famiglia come tante con molto da raccontare, i solata dal mondo e da tutti, dove l’interazione con il prossimo è ridotta all’osso. Alla base dello spettacolo teatrale “4 5 6” vi è un’idea semplice, un richiamo agli echi del verismo più cinico e crudele, quello che, tuttavia, fa meglio comprendere fin da subito spazio e tempo coinvolgendo lo spettatore in un vortice di emozioni a trecentosessanta gradi, catturandolo con dialoghi e scenografie appaganti, suggestive e coerenti con quanto si vuol rappresentare.  La produzione approdata al Goldoni il 18 aprile, per l’ultimo turno di prosa della stagione 2017/2018, capitanata da un quartetto d’attori di prim’ordine che ha visto sulla scena Massimo De Lorenzo, Cristina Pellegrino, Carlo De Ruggieri e Giordano Agrusta ha concluso in modo convincente un percorso artistico che il regio teatro ha deciso di fornire al suo pubblico.
La limitazione che può dare la parlata dialettale, in questo dramma spigoloso e scomodo, è l’elemento cardine su cui ruota l’intera narrazione, poiché tolta questa, della storia rimarrebbe ben poco sotto il profilo dell’intreccio e quel che avremo sarebbe un’impianto narrativo scontato e per larga parte già visto.  Per questo motivo, con tutte le difficoltà legate alla comprensione ed una migliore condivisione delle battute tra attori e spettatori, quanto portato alla luce con “4 5 6” resta una grande prova di recitazione, poiché a venire in soccorso di termini in un primo momento, magari, ostici da comprendere, v’è il linguaggio del corpo, la fonetica e l’inclinazione vocale che aiuta incredibilmente a condividere stati d’animo, gioie, paure, ansie e dolori.

La grande padronanza, inoltre, dello spazio, la scenografia minimalista, ma capace di fornire quel senso di desolazione e folklore tipico della provincia italiana, conferisce all’insieme quel tocco di personalità estetica che ancor di più aumenta, sotto il lato tecnico, quel coinvolgimento che, arrivati alla fine, è pressoché totale.  De Lorenzo, Pellegrino e De Ruggieri partendo da una situazione comune, calandosi nei panni di personaggi e uomini comuni, sanno dare ai loro alter ego un’empatia ed un carisma avvertibile e percepibile fin dopo pochi minuti, perché se è vero che i loro dramatis personae sono delle icone, degli specchi che a loro volta mostrano una situazione e delle personalità tipiche del “made in italy” in una precisa chiave antropologica e sociale, dall’altro è indiscusso che il talento di ogni attore presente riesca ad innalzare a monolitica presenza scenica ognuno dei personaggi di cui si segue la storia.

Tutti e quattro sopra le righe, eppure convincenti, ognuno con i suoi problemi ed i suoi peccati, sorvegliati, da ben 4 anni, da un sugo di pomodoro lasciato a cuocere a fuoco lento, incarnazione dell’anima della nonna defunta che, come un vaso di ceneri, guarda quanto avviene nell’abitazione dei tre. L’irrompere di un quarto attore, la cui introduzione è realizzata tramite l’entrata in scena dalla platea con funzione silenziosamente meta-teatrale, è l’apoteosi di un immaginario secondo atto che trascina la vicenda in una recita dentro la recita, dove i livelli di intesa ed intenzione di ognuno dei presenti si fondono in un gioco al massacro fino a rivelare la beffa finale, dove, purtroppo ad avere la meglio non è a salvezza nel futuro e la fiducia in esso, ma la conservazione e l’agonia che trascina l’umano alla morte, perché d’altronde l’uomo fin da quando nasce ha certezza di una sola cosa ed il pater familias Ovidio ha ben ragione, secondo la sua visione del mondo, di assicurarsi un posto privilegiato in un campo santo.

Sebbene il dramma sia costituito principalmente da presenze maschili, per contrasto, a brillare di maggior luce propria è Cristina Pellegrino, che in quanto donna offre una prospettiva tipicamente femminile, ma tutt’altro che ingenua, debole o retorica, capace di cozzare con i comprimari. Pellegrino mette voce e carattere nella sua performance, mescola audacia, gentilezza e odio, puro coraggio e pazienza; è, proprio come suo marito e suo figlio (nello spettacolo), il volto di un personaggio che a patto di condividere lo stesso tetto con la propria famiglia anela il bisogno e la necessità di vedere realizzati i suoi desideri, guardano al passato con mera nostalgia e augurandosi un domani migliore per se stessa, una promessa destinata a procrastinarsi all’infinito per un triste gioco del fato. Ovidio, il grande burattinaio, a sua volta comandato dalla sorte, con impeto ed arroganza, plasma e guida come se fosse il regista di un’opera da lui scritturata, coloro che gli stanno vicino e la possanza fisica e vocale di Massimo De Lorenzo rendono il personaggio granitico ed austero, effigie di una società isolata, certo, ma soprattutto alienata, che ha perso fede nei valori etici e morali del proprio tempo e della propria cultura aggrappandosi a modelli anacronistici e immaginari.

“4 5 6” è un dramma potente, preciso e pungente. Un insieme ben amalgamato e riuscito che conquista lentamente, come il pentolone in cui cuoce il sugo di pomodoro sinonimo del passato che non cessa mai di mettersi in mezzo al presente condizionandolo profondamente. Le musiche di Hans Zimmer, la cui maestosità trova una coerenza scenica tanto inspiegabile quanto azzeccata e d’impatto, guidano lo spettatore ad un finale degno delle più truculente tragedie del teatro antico. Ci fosse stato un coro di cittadini e cittadine a tirare le fila del discorso, per offrire al pubblico un commento esterno alla storia, con cui immedesimarsi maggiormente e mettere in contrasto solitudine con collettività, si poteva arrivare, forse a parlare di opera perfetta; ma tre voci, anzi quattro, per questo intenso ed appagante dramma familiare, in fondo, vanno più che bene e, come è giusto che sia, è stato corretto e doveroso lo scroscio di applausi arrivati una volta calato il sipario. Tanto di cappello.

 

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