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Al Goldoni un “Tram” per rivivere il mito del sogno americano

Mercoledì 30 Ottobre 2019 — 16:31

La recensione di "Un tram che si chiama desiderio" con Daniele Pecci e Mariangela d’Abbraccio andato in scena il 29 ottobre. Il testo valse il Pulitzer per la drammaturgia a Tennesse Williams

di Claudio Fedele

Testo di fama internazionale che valse a Tennesse Williams il premio Pulitzer per la drammaturgia, a cui è bene ricordare la trasposizione cinematografica con Marlon Brando e Vivien Leigh del 1951, “Un tram che si chiama desiderio” trova nuova forma in una produzione che vede coinvolti Mariangela d’Abbraccio (in foto) e Daniele Pecci nei ruoli dei due protagonisti, per la regia, le scene ed i costumi di Pier Luigi Pizzi.

Pièce che nell’arco della narrazione analizza e spezza le ambizioni ed illusioni del fantomatico sogno americano, il quale si incarna nei “valori” sociali e umani che Williams distribuisce non tanto in uno spazio esterno, ma nel microcosmo familiare, ad avere la meglio per quanto concerne questo specifico esperimento teatrale son ancora le parole dell’autore e la potenza visiva di alcune scene, che pur non volendo ambire alla maestosità tragica delle classiche opere del passato né tanto meno rifarsi ad un barocco dialettico che avrebbe snaturato l’alone di realismo di cui si veste con eleganza, guidano lo spettatore attraverso una vicenda colma di umile tragedia umana dove i vincitori si fondono con i vinti, dove la razionalità cede il passo alla follia, ma non per questo la prima riesce a godere del consenso generale rispetto alla seconda. La crisi identitaria di un paese si riflette nei modi e nei costumi di quei personaggi che assumono sempre più la parvenza di grotteschi idoli, metafore di avidità, crudeltà, bestialità, egoismo e lussuria.
Distante da una qualsiasi morale religiosa o retorica manichea, ma colmo di pragmatico cinismo esistenzialista con squarci di zampillante pessimismo umano, il quadro decadente tratteggiato dall’autore pone l’accento sul sacrificio dei deboli da parte dei (pre)potenti i quali, ciechi al dolore altrui, fanno ruotare la propria vita sulla corruzioni dei sentimenti umani per dare libero sfogo agli istinti più animaleschi. 

L’incomunicabilità non è più la causa che contraddistingue le acrimonie tra le diverse classi sociali, ma, nell’interazioni tra individui disperati appartenenti allo stesso ceto, ognuno di essi è partecipe di un gioco al massacro dove è possibile prendere atto di un ripetitivo rialzo della posta in palio e dove vince solo chi non si lascia trasportare dalle proprie illusioni, dai propri desideri, ma trae forza dalla propria carica interiore. Per questo motivo non c’è più la compostezza, che viene meno alla ordinarietà; per questo si scende dal piedistallo e ci si abbassa ad un livello che di virtuoso ha ben poco; per questo è condannato l’astrattismo intellettuale sostituito dal concreto modus vivendi di altre determinate e determinati realtà; per questo, infine, il cinismo ha la meglio sulla sensibilità. 

Eppure, a guardar bene, non si può nemmeno puntare l’indice accusatore su coloro i quali  si fanno emblema di quella precisa realtà, figli di un’epoca senza lumi e senza illuminati, nazioni prive di figure carismatiche che possano indirizzare le masse su quei valori sempre più elitari e sempre meno popolari. L’America, suggerisce Williams, non è mai stata “Great” e mai riuscirà ad esserlo. L’America è sinonimo di violenza. L’America è sinonimo di sangue. Emblematica resta la figura di Blanche, sorella di Stella, luce opaca e corrotta, priva anch’ella di quella purezza che però ostenta con l’ingenuità dell’illuso, che si contraddistingue in un ambiente barbaro maggiormente enfatizzato dai suoi modi pacati e composti, vittima sacrificale incompresa dove ogni comprimario di spessore costruisce il proprio peccato, il sudario della propria colpa nei riguardi della sventurata figlia del suo tempo. 

Se da un lato abbiamo l’ipocrisia viscida e scortese di Mitch, quell’onore virile mite che non permette a quest’ultimo di avvicinarsi a Blanche per i suoi trascorsi, pur dopo aver saputo il dramma giovanile che questa si porta appresso come un fardello, abbiamo, dall’altro lato, anche la schietta brutalità di Stanley, marito di Stella, uomo mastodontico e monumentale alter ego di Blanche a cui va il grande merito di presentarsi fin da subito esattamente come è: Stanley rimane sempre se stesso, non cerca mai di riscrivere la sua persona, non si cala mai nelle vesti di un altro personaggio per mantenere una parvenza di umanità che non gli appartiene ed è per questo che, non stravolgendo il suo ego, non cade vittima di dubbi, incertezze e rimorsi per come agisce, rimanendo, sul piano razionale, l’unica persona che fa dei suoi principi (malsani) delle salde colonne inamovibili contro cui si rovescia l’indomabile Blanche i cui flutti emotivi si infrangono inermi nello scontro verbale e fisico con il marito di sua sorella Stella.  L’estenuante battaglia tra queste due dramatis personae è il cuore pulsante della pièce, nonché culmine tragico che si respira fin da subito, suggerito da quella violenza che si alterna sui piani del linguaggio e del corpo. 

Daniele Pecci cuce su di sé il ritratto di un uomo complesso con notevole parsimonia ed il lavoro fatto su Stanley è percepibile fin dal modo in cui si vuole fare di lui un “antagonista” attraente, non un bruto, ma un fascinoso giovane carico di quello charme e pulsioni sessuali su cui si è tentati di cadere vittime proprio perché (e qui sta la grande genialità di Williams nel non voler illudere il suo pubblico scrivendo comunque un personaggio realistico ed umano in tutto e per tutto) in noi tutti alberga uno spirito selvaggio che rimarrà sempre attratto da una personalità come quella di Stanley.  “Ho sempre avuto fiducia nella gentilezza degli sconosciuti” è la sentenza che racchiude la summa dell’intero dramma, la condanna a morte di coloro i quali vivono per e di apparenze ed illusioni, di coloro che non hanno un posto nel mondo, di quelle povere anime che nella dura lotta per la vita permettono agli altri di salvarsi a spese di restare a galla sulle loro spalle. 

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