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I Soliti Ignoti: il riso amaro della povertà. La recensione

Giovedì 23 Gennaio 2020 — 11:46

Lo spettacolo sorprende maggiormente dove meno te lo aspetteresti: lodata la messa in scena e la scenografia, le sequenze migliori sono concentrate nel finale

di Claudio Fedele

Mettere mano ad una pietra miliare della cinematografia italiana, con l’intento di portarla in scena in veste di spettacolo teatrale, non è un’impresa facile: richiede rispetto, cura e dedizione nei riguardi del materiale originale.  Allo stesso tempo ci vuole voglia di osare, metterci del proprio e assumersi l’onere e l’onore necessario a mettersi in gioco plasmando i contenuti senza che questi influenzino chi vuole riproporli.

Spesso, infatti, quando parliamo di rifacimenti o remake, un regista si sente in soggezione verso un’opera che, vuoi per ambizione o per un legame intimo, ha in mente di realizzare mettendoci la faccia; gioco forza, quel che ne esce è un ibrido a metà strada tra l’omaggio sincero alla materia trattata ed un tentativo di modernizzazione della suddetta, uno “svecchiamento necessario” dove palese si percepisce lo scacco che l’idea originale pone sull’intera produzione.

I Soliti Ignoti, diretto ed interpretato da Vinicio Marchioni (il “Freddo” della serie tv “Romanzo Criminale”) non vuole fare eccezione a quest’assioma, anzi, rafforza il concetto che l’eco di quel che fu il capolavoro di Monicelli & co., a conti fatti, rimane ancora potente ed incisivo e forse più godibile della sua metamorfosi teatrale.

E’ un peccato, tenuto conto dello sforzo produttivo, dover prendere coscienza del fatto che lo spettacolo possa considerarsi, nel complesso, modesto laddove poteva, se avesse osato maggiormente, ambire ad una valutazione diversa e più encomiabile.

Tuttavia molteplici elementi fanno di questo dramma tragicomico una forma di intrattenimento più che riuscita, una commedia dolce-amara capace di soddisfare i palati meno fini e meno esigenti, coloro i quali vogliono e si aspettano una messa in scena capace di offrire loro ciò che desiderano, senza stuzzicare mai la fantasia, senza andare mai a ricercare quelle sfumature di colore che avrebbero scomposto l’intreccio e arricchito l’empatia tragica, donato nuova linfa e originalità e, forse, un vero e proprio motivo per godere di soluzioni inedite realizzabili solo su un palco teatrale.

La trovata di maggior impatto è la scenografia: il modo in cui si è deciso di voler contestualizzare la storia senza andare alla ricerca di un’estetica eccessiva, privando la povertà del secondo dopoguerra italiano di quell’enfasi barocca, figlia di un’eccessivo realismo idealizzato, volendo allestire un palco costituito da una spartana struttura in ferro scomponibile e interpretabile a seconda dei casi e delle esigenze: plastica e dinamica, non unicamente ai fini della vicenda, ma anche in virtù delle peculiarità dei protagonisti.

Davanti ad uno sfondo grigio, al cui centro è posto un quadro con immortalato un paesaggio arido e spoglio di vita di periferia, si animano le storie dei personaggi di Cosimo (Augusto Fornari), Capannelle (Salvatore Caruso), Mario (Antonio Grosso), Ferribbotte (Vito Facciolla), Tiberio (Vinicio Marchioni), Peppe (Massimo De Santis), Nicoletta e Carmela (Marilena Anniballi) e Dante (Ivano Schiavi).

Sono i poveri, i miserabili, i (con)dannati ad un’esistenza di povertà, i protagonisti assoluti.
Una coralità umana costretta a dover fare i conti con una fame che non crea “buchi” ma “caverne” all’interno dei loro corpi; uomini e donne stretti alla tradizione ed ai costumi della società, ed allo stesso tempo tanto intraprendenti da voler cambiare il proprio stile di vita proiettando desideri e fantasie in un futuro incerto, il quale sembra voler chiedere all’uomo di farsi garante del proprio destino e delle proprie fortune.

Vaghi, però, restano i messaggi e l’intento de I Soliti Ignoti: vuole far divertire, da una parte, vestendosi da commedia, o vuole far riflettere, dall’altra, mostrando la miseria tragica di derelitti border-line? Cerca con fatica, e non trova mai appieno: la retorica, la morale o la denuncia sociale?

Monicelli realizzò il suo caper-movie nel 1958, in un’altra Italia con un’altra sensibilità ed un’eredità socio-politica pesante figlia del secondo conflitto mondiale, dove le persone potevano dire di aver toccato con mano quello che i personaggi della storia rappresentata gridavano e manifestavano a gran voce; il ricordo della guerra non era sola memoria, ma (ancora) percepibile realtà. Proprio per questo la denuncia mascherata abilmente da commedia, aveva un potere quasi catartico ed il cinema riusciva, con genio e abilità, a dar vita ed un senso ad un umorismo tanto pungente seppur realistico e spontaneo.

Oggi questa nuova e prima trasposizione fatica a trovare un’identità vera e propria, ad andare a braccetto con la morale e la visione delle persone, a modernizzarsi in toto con gli usi ed i costumi odierni.

Avrebbe maggiormente giovato adattare le sventurate gesta anti-eroiche della banda di disgraziati ai giorni nostri: si sarebbe venuto a creare un forte allentamento, all’occhio, dal materiale di partenza, ma ciò avrebbe cristallizzato quei temi che la storia ha ereditato dalla sua controparte in celluloide rendendoli universali, abbattendo così i paletti del tempo. Sotto quest’ottica lo spettacolo non riforma né rivoluzione la formula narrativa che lo compone, adottando un approccio puramente conservatore nei propri contenuti.

I Soliti Ignoti sorprende maggiormente dove meno te lo aspetteresti: lodata la messa in scena e la scenografia, le sequenze migliori sono concentrate nel finale, quando si avverte quella tensione necessaria alla vicenda in virtù dell’approssimarsi del fatidico colpo.

Di impatto notevole è l’intermezzo canoro con cui si accompagna la dipartita di Cosimo, quando i suoi “amici” si riuniscono sul palco a cantare in onore di quest’ultimo: un lento e profondo coro di anime dannate in lotta con il mondo e con se stesse, in una guerra tra poveri; altrettanto ben riuscita resta la dinamica che coinvolge la sequenza del colpo: costumi di scena, personalità, scenografie, interpretazioni, si fondono in un tutt’uno che trova l’armonia giusta ponendo in modo corretto l’accento comico su uno sfondo altamente pericoloso, godendo di quella comicità caricaturale astratta ed immortale aliena ad un legame sociale ormai anacronistico.

Sarebbe ingiusto fare un parallelo con l’omonimo film, perché cinema e teatro restano due forme di intrattenimento e d’arte differenti, con tempi e modalità di realizzazione e fruizione non sempre convergenti, da ciò è bene prendere atto che non è altrettanto possibile, né tanto meno inerente alla situazione, fare un paragone tra due generazioni di cast d’attori diverse e con diverso bagaglio culturale.

Questa nuova produzione confeziona uno spettacolo di puro intrattenimento, scevra di altisonanti ambizioni, compiacendosi del risultato ottenuto.

I Soliti Ignoti non assurge a rinnovare quanto racconta né a stravolgere come lo racconta: si accontenta di far rivivere un preciso quadro storico, di lavorare sulla nostalgia, di proporre un dramma di estrema godibilità, curato nel dettaglio estetico, un omaggio sincero alla pellicola da cui prende forma, ben recitato e incapace di annoiare o stancare il pubblico a cui si rivolge.

Forse ai giorni nostri basta questo a far di uno spettacolo un prodotto riuscito, a sancirne il successo, ma sorge spontaneo domandarsi quali fossero gli obiettivi di Monicelli e se quest’ultimo avrebbe apprezzato questa nuova trasposizione teatrale del suo capolavoro.

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