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Filippo, il filosofo del ferro e della “lentezza”

Domenica 3 Maggio 2020 — 07:30

Ferro e umanità, i due grandi amori del giovane fabbro livornese Filippo Quochi. Nella sua attività importanti esposizioni artistiche. Il suo motto: "La qualità richiede tempo"

di Tommaso Lucchesi

Una forte curiosità per l’essere umano mista a una passione travolgente per il ferro battuto. Sono questi gli ingredienti della vita di Filippo Quochi (nella foto gentilmente concessa da Andrea Pistolesi), livornese dall’11 maggio 1975, giovane continuatore di un’antica tradizione di famiglia che ha nella lavorazione del ferro la sua anima. Ma non solo cancelli e inferriate: Filippo è anche un valido artista e ha partecipato ad oltre 20 mostre in cui ha esposto sculture ricevendo spesso riconoscimenti e complimenti illustri. Quochi è inoltre ideatore del marchio registrato SloWork™ e promotore della filosofia di lavoro (e di vita) che vede nella lentezza una risorsa e non un difetto in un mondo sempre più vorticoso ed impaziente.

Ciao Filippo, come di rito la prima domanda è: quando e come hai iniziato?
“Salve a tutti. Innanzitutto va detto che è stato facile per me inserirmi in questo ambiente dato che provengo da una famiglia di fabbri da sei generazioni e ascoltando i racconti di mio nonno ho saputo che un nostro avo ha iniziato a battere ferro già nel 1780. Era un destino di famiglia! Da ragazzo durante le calde estati al Gabbro, tra una corsa in bicicletta e l’altra, ero sempre pronto a dare una mano in bottega a mio nonno ed è lì che è scoccata la scintilla. Amavo e amo tuttora le attività manuali e non è stato affatto difficile appassionarmi ad un lavoro i cui maestri sono stati mio padre Marrico e mio zio Umberto. Ho deciso quindi di proseguire il mestiere di famiglia e mi sono trasferito a 20 anni a Livorno con l’dea di allargare un po’ la clientela. Ero consapevole di essere in controtendenza per l’epoca in cui molti miei coetanei si laureavano o puntavano ai celebri posti fissi, ma non rimpiango la scelta che ho fatto e mi sento fortunato a fare qualcosa che mi piace“.

Filippo Quochi in un bellissimo scatto in bianco e nero gentilmente concesso da Elisa Heusch

Quanto è stato importante tuo padre?
“Tutto, a lui devo veramente tantissimo. Oltre ad avermi insegnato le basi mi ha sempre incentivato nella mia attività e tuttora non perde occasione di aiutarmi quotidianamente nel mio lavoro. Marrico mi ha sempre seguito anche quando ha preso una strada professionale diversa e non gli sarò mai grato abbastanza. Oltretutto in laboratorio abbiamo creato un’alchimia che è veramente difficile descrivere, un’intesa sul lavoro che ha fatto bene anche al nostro rapporto”.

Qual è la stata la tua prima commissione?
“Venni incaricato di fare un tavolino apribile in ferro battuto per una signora in vista della Fiera di Milano. Una grande soddisfazione! Sono poi riuscito a farne un campione e lo tengo ancora gelosamente nel mio capannone in via Fabio Filzi, 31. Sono cresciuto molto da allora”.

Cosa ti appassiona particolarmente nel tuo lavoro?
“Bene o male mi piace fare tutto, lavori di carpenteria, restauro e riparazioni ma adoro soprattutto la classica lavorazione del ferro a caldo e ogni qual volta mi chiedono di fare lavori di arredamento. Dalle inferriate ai cancelli fino alle ringhiere e all’oggettistica, amo  tutto ciò in cui posso esprimermi con carta bianca e lasciare una parte di me in ogni cosa che faccio. Mi piace molto ascoltare il cliente quando viene da me a spiegarmi cosa desidera e mi ingegno per simpatizzare il più possibile con lui e capire cosa fa meglio al caso suo. Dalle storie che mi raccontano cerco di intuire i loro gusti e la loro sensibilità e mi adeguo coniugando il mio stile alla loro idea. Mi piace fare un po’ lo psicologo dei miei committenti. Inoltre faccio intervenire i clienti in corso d’opera per modificare qualcosa se serve e far capire loro nel modo migliore cosa avevo in mente. Per me il loro coinvolgimento è prioritario”.

Ami molto il rapporto con i tuoi clienti e nei hai fatto addirittura una “filosofia”.
“Esatto. Ho registrato lo slogan SloWork™ che include le parole lento (slow) e lavoro (work) perché credo fermamente che l’incontro libero tra persone, il confronto reciproco e la riflessione interiore producano qualità e diano un valore umano al proprio mestiere. Lavorare freneticamente e con la paura della fretta non mi appartiene ma anzi amo condividere con l’altro pezzi di vissuto che potrebbero rivelarsi preziosi nella realizzazione dell’opera. Nel mio futuro spero di espandere questo concetto anche oltre il campo della forgiatura perché è un life style perfettamente compatibile con altre attività artigianali ma anche con le abitudini che caratterizzano la nostra vita”. 

Oltre a essere un fabbro riconosciuto hai anche esplorato il mondo dell’arte. Com’è andata?
“Piuttosto bene direi! Io non mi considero un artista e preferisco essere definito un artigiano, dato che non pratico il mestiere dello scultore a tempo pieno e reputo la parola “artigianato” troppo declassata. In ogni caso espongo dal 2003 e grazie a questa passione ho fatto il giro di moltissime mostre in Toscana e in Italia e ricevuto vari riconoscimenti. Ho partecipato a diversi Campionati del mondo di forgiatura a Stia, Arezzo, da cui sono uscito sempre molto arricchito. Ho esposto anche a Innsbruck in Austria e in Norvegia anche se la gratificazione più grande è stata il riconoscimento dell’OmA (ovvero Osservatorio Mestieri d’Arte, ndr) per i livelli di eccellenza raggiunti. Durante una mia esperienza a Milano ho ricevuto i complimenti da un insospettabile intenditore d’arte come Pippo Franco e ho avuto recensioni da parte di Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio. Inoltre tra i miei committenti “illustri” devo per forza citare il grande Antonino Cannavacciuolo, per il quale realizzai tre quadri-sculture in ferro e plexiglass per il suo locale a Villa Crespi in Piemonte. Tutte persone veramente interessanti…”.

Che stile ti rappresenta maggiormente?
“Amo molto l’astratto e mi piace indagare quello che non si vede ma in realtà c’è. Nelle mie sculture in ferro spesso inserisco numeri e lettere a rappresentare i codici personali degli individui con cui entro in contatto. Cerco di dare forma alla mia grande curiosità nei confronti dell’essere umano e lo raffiguro tramite pensieri ed emozioni che trasformo in materia. Per me l’arte è la libertà d’espressione, massima immaginazione senza limiti come avviene per i bambini. Il fare arte ti costringe a metterti a nudo senza vergogna e a essere disposto a raccontare qualcosa di te”.

Hai vissuto l’avanzata tecnologica che ha travolto tutti i settori, compreso l’artigianato. Come è cambiato il mestiere oggi?
“Sicuramente dai tempi dei miei antenati è cambiato anche il contesto socio-economico che ci circonda, dal baratto tra paesani che si usava spesso all’inizio del Novecento a commissioni per alti borghesi nel dopoguerra, fino a oggi in cui il mercato ha reso i nostri prodotti spesso vicini al mondo del design. Dal punto di vista tecnico nel complesso la lavorazione è rimasta la stessa seppure con macchinari naturalmente più moderni e con la possibilità di poterti confrontare continuamente con colleghi di tutto il mondo e migliorarti anche a distanza”.

Passando all’imminente attualità con una crisi post-coronavirus che sembra profilarsi davvero pesante, come pensi potrà viverla il tuo campo?
“Senza dubbio questi mesi di quarantena non hanno fatto bene al nostro lavoro e il contraccolpo sarà forte ma bisogna continuare a essere fiduciosi e ottimisti, guardare avanti e ripartire da dove avevamo lasciato con più voglia e coraggio, sperando magari in un po’ di sana fortuna”.

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